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Overdose: oltre i limiti, oltre il rifiuto.

L’ impresa di cultura, guidata dall’artista Emar Donato Laborante, promuove il
teatro come terapia, informazione e come espressione politica.

(a cura di Valentina D’Aprile per Free)

Ferula Ferita è un’«isola
abitata dai sopravvissuti ai naufragi, alle intemperie della
quotidianità».

Se la quotidianità si caratterizza in
gran parte per il perseguimento di finalità culturali e di
promozione di un impegno sociale attraverso il ricorso alle
associazioni senza scopo di lucro, Ferula Ferita si presenta per
ragioni di coerenza ideologica come un’ impresa che associa
sensibilizzazione culturale e profitto. Una società a responsabilità
limitata individuale dal punto di vista giuridico- formale. Nella
sostanza approdo e punto di partenza di un gruppo di “autoriattori”,
che dal 1994 hanno avviato un percorso di ricerca, di studio e di
incidenza pubblica attraverso le classiche espressione artistiche:
azione teatrale, editoria e cinematografia. Per la verità il vero
elemento catalizzatore è proprio il teatro e il bisogno di
trasfondere in rappresentazione teatrale le dinamiche suggerite dalla
quotidianità. Tre i cantastorie principali: Emar Donato Laborante,
Tonio Creanza e Vincenzo Bigi. Dietro le quinte un’ equipe ben
nutrita di musici, tecnici e curatori scenici. Dopo Il Nannorchio
e la Nannorchia, L’intelligenza femminile, L’Approdo sommerso,
a
chiudere uno degli ultimi appuntamenti della rassegna estiva
altamurana è Overdose. Simbolo di come una società possa
stare male superando insensatamente i limiti del suo stare fin tropo
bene. Quale la causa? Lo si legge nelle parole del suo regista-
attore principale (Emar Donato Laborante): “ il principio dei mali
è la disattenzione”.

Dietro la scelta di un’ «impresa
di cultura» c’è l’intento di denunciare l’attuale mondo
dell’associazionismo?

In Italia, ma anche ad Altamura, c’è
un’inflazione di associazioni senza scopo di lucro con finalità
abbastanza simili di promozione culturale, sociale, editoriale. Ci
sono persone che investono gran parte del loro tempo
nell’organizzazione degli eventi e nell’attività
dell’associazione. è impensabile che possano contemporaneamente
svolgere altrove un ruolo remunerativo. Quindi, il guadagno c’è.
Se lo schermo dell’assenza di lucro è poi il pretesto per
mascherarlo e per beneficiare delle esenzioni fiscali, noi di Ferula
Ferita preferiamo discostarci e fare gli imprenditori senza
escamotage. Diversamente non potrebbe farsi denuncia sociale.

Cosa più spaventa nell’operare
delle associazioni?

I loro silenzi. Nei momenti in cui
occorre che la forza di gruppo si manifesti all’esterno a difesa di
diritti umani, di singoli o di categorie di persone, a tutela di
ideologie, in contrapposizione a politiche antidemocratiche, ma anche
semplicemente per esprimere un punto di vista diverso, perdono forza
persuasiva.

Ferula Ferita in queste occasioni,
invece, assume una visibilità diversa?

Ferula Ferita si pone obiettivi non
troppo ambiziosi e non troppo generici. Non vogliamo essere dovunque.
Vogliamo offrire la nostra esperienza a chi è in grado di
accoglierla perchè si trova o si è trovato nella nostra stessa
condizione. Siamo degli Ex. Tutti lo siamo un po’. Si può essere
ex tossici, ex alcolisti, ex emarginati. Anch’io sono un ex
balbuziente, ma che da autodidatta si è trasformato in un poeta
bohémien, in un regista, in un attore. Illustrare il percorso che
ognuno di noi ha compiuto per ritornare a vivere ha lo scopo di
indurre il nostro pubblico a cercare una strada alternativa. La mia
forza di volontà è nata dall’innamorarmi gradualmente della
bellezza della vita, apprezzandola dalle piccole cose. E questo
dipende anche dagli incontri che si fanno. Noi cerchiamo di essere
quell’ incontro per le generazioni attuali, che vivono il disagio
sociale perché in precedenza hanno vissuto quello famigliare. Spesso
la tossicodipendenza e l’alcoolismo coinvolgono genitori e figli.

I nostri spettacoli, i nostri libri, le
nostre poesie hanno un solo scopo: responsabilizzare.

La politica deve responsabilizzarsi
assicurando maggiore solidità economica alle famiglie. I soggetti
dipendenti da sostanze psicotrope devono farlo cominciando ad
ammettere a se stessi di esserlo. Si ignora la potenzialità
autolesionista delle sostanze perché basta la sensazione breve e
intensa di fuga dalla realtà. La tristezza dell’attuale uso di
droghe, soprattutto da parte dei più giovani, è che non sono più
strumento di contestazione ideologica, ma una moda da seguire.

Portando Overdose nelle scuole
cercheremo di fare formazione culturale, associando al ruolo
insostituibile delle altre istituzioni come la famiglia, la Chiesa e
quello che resta dei raggruppamenti politici.

Uno dei temi centrali di Overdose
è la tossicodipendenza. Quale soluzione proponete per
affrontarla?

La legalizzazione. In fondo con la
legge Fini- Giovanardi resta impunito, senza differenze tra droghe
leggere e pesanti, il possesso di una modica quantità di sostanze
stupefacenti, tale da far presumere che sia destinata esclusivamente
all’uso personale.

Assistiamo ad uno stillicidio delle
forze dell’ordine che sono costrette a fare un lavoro deprimente,
come quello di chiedere ad una persona responsabile di indicare la
quantità di droga posseduta, verbalizzare, inviarlo al Sert, dove la
cura con il metadone significa intervenire già troppo tardi e dove
speranze di miglioramento ce ne sono davvero poche.

Legalizzare non significa
disinteressarsi. È autoresponsabilità. Le persone maggiorenni,
consapevoli e volontari, potranno acquistare le dosi giuste e
controllate nelle farmacie e nei supermercati. Naturalmente il
disincentivo dovrebbe derivare da un’attenta campagna di
informazione e di sensibilizzazione da parte delle autorità
pubbliche e dei mass media. In quest’ultima direzione non sarebbe
infruttuoso investire il danaro pubblico. Tanti sprechi delle risorse
derivanti dalla finanza pubblica ci sono stati nella lotta alla
tossicodipendenza. Lo si ricava facilmente confrontando la spesa
effettuata per l’acquisto del metadone e per la sua
somministrazione con il numero delle persone che si sono salvate, ad
esempio, a distanza di cinque anni da quando è iniziata la cura nei
Sert. Il rapporto in termini di costi/benefici non regge.

Un teatro che è riflessione,
formazione e informazione, dunque.

È necessaria una seria presa di
coscienza. Gli ultimi dati statistici attestano come il controllo
della distribuzione della droga sia praticamente in mano a ragazzi
di età compresa tra i 12 e i 14 anni.

Le sostanze oppiacee da dove vengono?

Da un’indagine del Giornale
L’Espresso
risulta che il raccolto di oppio in Afghanistan
garantisce più del 90 per cento della produzione mondiale. «Non
è l’unica ragione della nuova diffusione di eroina. Ci sarebbe
anche un motivo strettamente economico. Dal punto di vista dei
trafficanti, investire nell’eroina è come comprare titoli di
Stato. La dipendenza fidelizza i clienti. E chi entra nell’affare
può stare tranquillo per i prossimi dieci, vent’anni. Soprattutto
dopo che l’Unione europea ha rinunciato alla distruzione delle
coltivazioni di oppio, sia nei territori afgani controllati dalla
coalizione della Nato, sia in quelli riconquistati dai talebani. Un
altro scenario internazionale gioca a favore dei narcos: la lotta ai
trafficanti non è più al primo posto dell’agenda internazionale,
sostituita dalla caccia ai terroristi di Al Qaeda che con la
produzione di oppio finanziano a loro volta la guerra».

Al centro di Overdose
sono anche i rifiuti con il dramma del loro riciclo.

Filo conduttore la narrazione della
tua vita. Un percorso che rappresenta lo spunto per riflettere sul
cambiamento dei valori nel passaggio da un contesto socio- culturale
basato sui valori della civiltà contadina ad una società in cui
diventa ingestibile il rifiuto, il surplus.

L’idea che vorremmo passasse è che
una vita nevrastenica condiziona il nostro comportamento anche nella
gestione del rifiuto. È necessario riappropriarsi di ritmi e tempi.
Riciclare significa prendersi il tempo di guardare e conoscere gli
elementi da differenziare. Il riciclo, in Overdose, è
metafora della libertà acquisita. Il cambiamento economico è
cambiamento culturale. La diversa mentalità si coglie bene nel
passaggio dagli anni 50 ad oggi. Quando cesserà la logica di
offendere la Terra inquinandola, imparare a riciclare gli scarti
significherà aver imparato a riciclare il nostro pensiero. La
volontà manca. Lo dimostra il fatto che da quando si è
intensificato il dibattito sulla crisi ecologica il costo della carta
riciclata è aumentato. La nostra soluzione è pagare i rifiuti a chi
li produce. L’isola ecologica è ancora qualcosa di impercettibile.
Eppure sarebbe così semplice porre delle presse di raccolta dei vari
elementi in ciascun condominio e poi, individuati gli intermediari,
vendere il materiale guadagnando una modica cifra su ogni tonnellata.
L’unico fastidio è quello di acquistare i collettori e di mettersi
in contatto con gli acquirenti, che esistono e sono anche oberati di
lavoro. Nella provincia di Torino è stato merito di due imprenditori
da sempre operanti nella gestione e nello smaltimento dei rifiuti
creare una vera e propria attività commerciale, da cui ne è
scaturita una catena di franchising. Ad Altamura ci sono grossisti
che raccolgono ferro, rame, alluminio, acciaio, ghisa. Non riesco nel
mio piccolo a trovare acquirenti di vetro, carta e cartone.

Se ci fosse maggiore attenzione da
parte di imprese e amministrazioni in questa direzione, lo scarso 8%
di livello di raccolta differenziata aumenterebbe sicuramente.

Nel 1977 Pier Paolo Pasolini, in
Lettere Luterane scrisse “Finché in Italia non ci sarà un
processo per abbruttimento paesaggistico del territorio, non ci sarà
democrazia”.

Sono passati trent’anni e siamo fermi
allo stesso punto.

“Lo sforzo disperato che compie
l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è
teatro” (Eduardo De Filippo).